Le case dei principi che regnarono sugli Stati italiani prima dell'unificazione risorgimentale erano state quasi tutte tenute in scarsa considerazione. Specialmente le ultime vicende di quelle dinastie nell'epoca, appunto, risorgimentale avevano influito negativamente sulla loro fama. I Lorena di Toscana erano mummie sonnolente e pavide. Gli Este di Modena e i Borboni di Parma erano tipi da operetta.
I Borboni di Napoli erano gente ignorante e retriva. Gli
Asburgo regnanti in Lombardia e nelle Venezie erano stranieri
oppressivi. I pontefici erano il potere temporale dei papi e un regime
oscurantista e civilmente arretrato.
Si salvavano, naturalmente, i
Savoia per le note ragioni risorgimentali. Prima del Risorgimento si
erano estinte dinastie italianissime, come quelle dei Medici in
Toscana, dei Farnese a Parma, dei Gonzaga a Mantova, verso le quali -
soprattutto per i Medici - si aveva un po’ più di
considerazione, ma anch'esse soggiacevano al pregiudizio sulla storia
italiana post-rinascimentale, che appariva intrisa di decadenza
materiale e morale, di soggezione e servilismo verso gli stranieri
dominanti. Poi è venuto il tempo del revisionismo.
La vecchia
Italia è stata largamente riconsacrata. Gli Asburgo? Solo da
rimpiangere per la loro amministrazione-modello. I Borboni napoletani?
All'avanguardia del progresso moderno. I granduchi di Toscana? Gente
esemplarmente pacifica e civile. E così via, salvo forse che per
i papi, i quali troppo bene, come sovrani del loro Stato, non se la
sono cavata neppure adesso.
La realtà, com’è facile intendere, è lontana sia
dal vecchio pregiudizio sfavorevole sia dalle recenti esaltazioni. Si
può (si deve) largamente convenire sul giudizio relativo
all'Italia post-rinascimentale come un Paese che passa dalla prima alla
seconda o terza fila dello scenario europeo senza, per questo, mancare
di apprezzarne la persistente vitalità e creatività e gli
aspetti positivi (per grandi storici italiani come il Muratori, il
tempo della prevalenza straniera era stato tra i più felici
nella storia del Paese, perché aveva assicurato una lunga pace e
tutto ciò che di buono si lega alla pace).
Si può guardare alle vecchie dinastie anche, se si vuole, con
simpatia, senza ignorare che l'Italia ha dovuto poi operare una grande
rincorsa all'Europa, che non è del tutto finita, per riprendere
un posto più degno delle sue tradizioni e capacità. Anzi,
più si approfondisce lo studio dell'Italia di quei principi,
meglio si conoscono la storia nazionale e quella delle varie parti
d'Italia, e meglio si penetra in alcune pieghe della storia dell'Italia
di oggi.
Tra l'altro, nella diversità delle case regnanti le
similitudini del sistema dinastico erano maggiori di quanto si potrebbe
pensare, costituendo, a mio avviso, una delle non ultime ragioni per
cui parlare di una storia d'Italia prima dell'unificazione del 1861 non
è un’eresia; e aggiungo che, nello sforzo dei principi italiani
dell'età moderna per europeizzare la loro figura, si ha una
riprova di più per rendersi conto della parabola italiana nella
storia dell'Europa moderna.
Sull’unitarietà del sistema dinastico nella penisola si diffonde
ora Angelantonio Spagnoletti ( Le dinastie italiane nella prima
età moderna , Il Mulino), che studia meritoriamente, anche per
le dinastie più piccole che regnarono su territori marginali, le
politiche matrimoniali, la vita familiare, l'onomastica, i cerimoniali,
l'uso politico del culto religioso nonché il rapporto tra queste
mentalità e i relativi comportamenti con la maggiore storia
italiana ed europea.
Spagnoletti indulge, mi pare, a una certa benevola nostalgia per quelle
casate e per l'identificazione con esse che, gli sembra, abbia
caratterizzato le popolazioni degli Stati pre-unitari. Qui,
però, non lo seguiremo. Egli afferma in ultimo che i Toscani
avrebbero rimpianto i Medici e dato molto per riaverli e, soprattutto,
per non avere i Lorena. Ma già la vecchia di Siracusa sapeva,
venticinque secoli fa, che si rimpiange sempre il penultimo «come
migliore dell'ultimo». Quell'antica saggezza popolana dovrebbe
insegnare ancora qualcosa allo storico (e al politico) moderno.
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