FORA...
Rivista elettronica fondata nel 2000 da Nicola Zitara
EDITORIALE - NICOLA ZITARA
Siderno, 28 febbraio 2000
|
A partire dei primi decenni unitari - cioe da centovent’anni - il Sud vive in una condizione di permanente mancanza di lavoro. Quella che fino a qualche decennio fa veniva chiamata "la questione meridionale", in sostanza, non e altro che inoccupazione, disoccupazione permanente e generalizzata.
Lo stato italiano e nato (1861) quando tutta l’Europa stava passando dall’artigianato all’industria e dall’agricoltura estensiva a quella intensiva. Questo passaggio ha modificato radicalmente il rapporto tra il lavoratore e il costo degli strumenti di lavoro. Prima, la produttivita era molto bassa (se confrontata con l’attuale), ma per essere un produttore bastava un attrezzo semplice, come una zappa, un martello, un’ascia, una vela. Cambiato l’assetto, sono alcuni cambiamenti epocali, fra cui:
ogni posto di lavoro impegna un capitale consistente, a volte parecchi miliardi, una cifra che nessun lavoratore possiede, o come si dice correttamente, un capitale;
la produttivita del lavoro e cresciuta e continua a crescere enormemente, di conseguenza una minoranza di lavoratori, insediati su spazi ristretti, producono quanto il marcato richiede, cioe quello che masse sterminate di uomini sono in condizione di comprare. L’esempio classico e quello delle cotonine, la cui produzione, un tempo, impegnava decine di milioni di telai e di tessitori e tessitrici, interi continenti, mentre oggi e coperta da qualche migliaio di impianti, ciascuno dei quali impiega qualche centinaio di lavoratori.
Nella sua fase genetica, il capitale e produzione non consumata, risparmio. Il risparmio puo essere volontario o imposto dallo stato. Lo stato italiano ha imposto al popolo meridionale un risparmio forzoso, in alcuni momenti fino alla fame. Il capitale cosi formato e stato consegnato nelle mani degli imprenditori e dei tangentisti padani, che se ne sono appropriati e sempre con l’aiuto dello stato italiano l’hanno enormemente allargato). Per Gramsci, che aveva capito tutto ma preferi tacere sulla convergenza d’interessi tra capitalisti e aristocrazie operaie padane, era questa, e non altro, la cosiddetta questione meridionale.
Il Sud e senza lavoro perche non controlla il proprio risparmio. Non puo usarlo per realizzare il suo passaggio a paese moderno. Questo vincolo non e interno, ma esterno alla societa meridionale e viene dallo STATO ITALIANO, che e uno stato falsamente nazionale. Esso infatti ha assolto la funzione storica di assicurare buoni profitti alle aziende e il pieno impiego dei lavoratori nelle regioni padane. Oggi lo stato di Ciampi, di Amato, di Prodi, di D’Alema, cioe sempre lo stato nordista della Confindustria, guida dette regioni - forti nei confronti del Sud, deboli invece nel cozzo con l’economia tedesca - a inserirsi nel sistema capitalistico europeo con il minor numero di morti sul campo.
Da dieci anni il Sud sta pagando il biglietto d’ingresso del Centronord in Europa. Ci sono stati anche dei costi precedenti, come la mancata industrializzazione e l’annientamento dell’agricoltura meridionale, ma verita storica vuole che essi non siano messi in conto ai partener europei, ma al reuccio FIAT e ai duchini confindustriali (giavan signori, delle Grazie alunni) che, in cambio d’arance, sono riusciti a collocare fabbriche automobilistiche e vetture in Spagna e nei paesi nordafricani. Lo stesso sire di Mirafiori e i ducetti delle grandi confederazioni sindacali, in cambio dell’industrializzazione al Sud hanno voluto quattrini, strade, citta d’arte, benessere, garanzie in fabbrica e fuori, la Scala primo teatro del mondo, il Reggio di Parma, una citta dove si potrebbe fischiare persino Pavarotti, il Milan fra i grandi della storia della civilta, la Bocconi, fonte unica dell’italico sapere, le altre le universita, la ricerca e mille altre cose ancora, non esclusa la rottamazione. Per non parlare delle glorie del Cavallino Rosso e di Luna anch’essa Rossa.
E Napoli canta. Canta la lupara.
Se non avverra un miracolo - una cosa che neanche il governatore Fazio nel suo devoto messianesimo riesce a immaginare - ancora una volta il Sud andra alla perdizione. C’e in giro per questi luoghi malfamati gente che a cinquant’anni non ha mai visto un lavoro e una paga. Dal 1975 ad oggi, un’intera generazione - quattro milioni di persone - e stata profondamente ferita. Fra dieci anni, ancora a meta della sua parabola vitale, la prossima generazione si rendera conto d’essere stata interamente bruciata.
E'un fatto ormai storicamente certo: con noi meridionali, la patria italiana e peggio del Conte Ugolino.
Il Meridione e grande tre volte la Svizzera o l’Austria, sette volte l’Irlanda, due volte il Belgio. Non siamo troppo piccoli per essere uno stato indipendente.
I lavoratori meridionali non sono di Serie B. Sono lavoratori del primo livello mondiale. Dovunque l’emigrazione li ha portati sono stati e sono apprezzati e amati. Buoni per l’efficiente Germania, per la versatile Inghilterra, per la strutturata Francia, per l’agonistico mondo americano e per l’Australia, oggi i loro figli e nipoti sono integrati e inseriti nelle classi superiori e dirigenti. Ne si puo tacere che Mario Cuomo e stato vicino a essere presidente degli USA.
Una volta indipendente, il Sud avrebbe un tasso di sviluppo di fronte al quale quello tanto conclamato della Corea sarebbe un’inezia. La classe lavoratrice inoperosa di cui dispone e tanto avanzata che in pochi anni il Sud supererebbe il prodotto interno lordo delle regioni settentrionali.
Chi leggera il saggio che segue (Tutta l’egalite) trovera una piu estesa esposizione sul tema dello stato indipendente. Tra l’altro vedra che il separatismo di cui si parla appartiene a una categoria politica nuova. Alla sua base sta l’idea neosocialista che la funzione essenziale dello stato e ancora quella che ispirava i nostri progenitori elleni e la politica delle loro citta-stato: la piena occupazione, una cosa che e tutto l’opposto dello stato-azienda nazionale (o continentale) del capitale.
Il nostro socialismo parte dalla lezione di Marx, ma va oltre, depurando il progetto di cio che esso aveva di macchinoso, astratto, disumano. Non e lontano dal liberalismo giuridico - dal diritto naturale - ma confligge con il liberismo amorale degli utilitaristi anglosassoni e con l’attuale arlecchinata globalista.
E'immorale che un uomo lavori al servizio di un altro e che quest’altro (con la scusa puerile che ha fornito macchine, attrezzi e materie prime) lo espropri in parte del guadagno che il valore aggiunto dal suo lavoro comporta nello scambio del bene prodotto.
Viviamo in mondo fatto di merci e dominato dallo scambio. Il Come gia proclamato dai giusnaturalisti la liberta di vendere e comprare e una liberta primaria. La proprieta dei beni prodotti e riproducibili, delle macchine, degli attrezzi, del danaro e del capitale liquido e fondamentale. Appartiene invece a una concezione illiberale la proprieta della terra, delle acque e dell’aria, che si configura quasi sempre come monopolio. L’acquisto e la vendita del tempo di lavoro altrui e una violenza alla natura intelligente dell’uomo, alla dignita di una specie che, si afferma, fatta a immagine e somiglianza di Dio. Un atto non tanto lontano dalla riduzione in schiavitu.
La parola economia nella mente di chi la conio voleva dire governo degli interessi domestici e familiari (della casa), oggi vuol dire governo degli interessi di un’azienda, sia essa una famiglia, una fabbrica, un podere, un Comune, una Regione, una collettivita nazionale, l’intera umanita. L’intervento dell’Ente pubblico nel coordinamento delle private attivita e oggi piu che mai inevitabile. Solo un Comune puo aprire una strada, illuminarla, adornarla di panchine, fiori e alberi, servire gli abitanti di acqua e fogna, farci arrivare i mezzi di pubblico trasporto. Oppure chiudere al traffico una via che in precedenza era aperta al transito dei veicoli. Costruire un porto, un aeroporto, assicurare delle franchigie doganali, tutelare l’incolumita di lavora esponendosi a serio rischio. E non occorre Adam Smith per capire quanto pesi sul bar, sul negozio, sulla vita quotidiana dei bambini, dei vecchi, degli adulti la capacita di dirigere dell’ente pubblico.
Non c’e economia moderna senza uno stato indipendente. Meglio degli altri lo sanno gli americani che dal momento in cui si sono liberati del Re d’Inghilterra hanno preso a bruciare le tappe per arrivare a essere la piu prospera nazione del mondo.
Non c’e economia nazionale se non presieduta e governata dall’ente stato. Lo sanno bene gli europei che, per non farsi sfruttare ulteriormente dall’incontrollata emissione di dollari inconvertibili, hanno fondato un loro stato, e per prima cosa nominato un governo della moneta del loro stato.
Basta. Siamo un grande popolo. Siamo stati alle origini della civilta occidentale in tutti i campi. L’umiliazione di essere cornuti e mazziati come Pulcinella deve finire.
Per noi. Per i nostri figli e nipoti. Per i nostri padri e avi.
Si fotta lo stato italiano, e con esso la classe degli ascari che il governo nordista foraggia per usarci come iloti della patria milanese.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------
Il testo era stato scritto come saggio centrale di una rivista che non ho mai avuto i soldi per stampare. L’ho poi pubblicato come testo a se stante in mille copie. Adesso che Internet me ne offre la possibilita, lo diffondo on line. Contemporaneamente lo riprendo in mano per renderlo piu attuale.
Di quella stessa rivista avevo pronti gia due numeri. Man mano che rivedo i testi, li mettero in Internet. Nel frattempo scrivero altre cose e altri mi invieranno le loro collaborazioni. Fin che potro le inseriro sulle linee che amici generosi mi hanno messo a disposizione.
For more articles, and information on books by Zitara,
visit the pages dedicated to in this site.
Siderno, 11 febbraio 2004
Avvertenza
"La rivista elettronica Fora accetta e pubblica gli eventuali articoli, i saggi e gli altri testi inviati solo se si presentano consentanei con la linea del Separatismo meridionale, per la fondazione di uno Stato indipendente e a base liberal/socialista. Questa formula, ormai abusata, nel nostro caso si specifica con l'abolizione del lavoro dipendente a favore di forme di collaborazione aziendale (societa anonime di capitale, societa cooperative) fra i produttori. Insomma, niente padrone. Il lavoro e il rischio d'impresa sono unificati in una sola figura giuridica.
"La Rivista ha facolta di decidere circa la pubblicazione totale o parziale delle collaborazioni firmate.
"Si prega di non inoltrare corrispondenza nella forma di "lettera al direttore", che pretenderebbero una risposta ad personam. La rivista non ha un'organizzazione adeguata a fornire detto servizio.
"Grazie e saluti."
Nicola Zitara
-----------------------------------------------------------------------------------------------------
ha cessato le pubblicazioni
per decisione della Famiglia Zitara,
pertanto sono stati disattivati
tutti gli indirizzi email collegati alla Rivista
Sud, non ci fu nessun genocidio
by historiaregni | domenica, luglio 10, 2016
Purtroppo negli ultimi anni la riscoperta della storia e dell’identità del Sud è sfociata spesso in un revisionismo spicciolo che ha già generato clamorose bufale da quella delle “Due Sicilie terza potenza mondiale” al “lager di Fenestrelle” sino all’esaltazione di un bidet di Maria Carolina come simbolo del progresso civile nel Reame di Napoli ed a mostre su Carlo di Borbone piene di strafalcioni sulla sua ascesa al trono di Spagna o sugli usi civici. Il libro “Carnefici” di Pino Aprile si inserisce in questo filone e scegliamo di parlarne come esempio di quel revisionismo che non ci piace e che non fa bene al Sud perché non documentato ed astioso. I due più grandi difetti di questa pubblicazione infatti sono l’assenza di fonti adeguate e l’intreccio continuo di lamentele e rancori.
“Carnefici” di Pino Aprile si basa su asserzioni non supportate da un apparato documentale. Mancano cioè riferimenti sufficienti e chiari a fonti archivistiche, nonchè biografiche – perlopiù l’autore cita libri della sua stessa vulgata -, che confermino la veridicità delle sue affermazioni. Alla fine viene fuori un guazzabuglio di date e dati incongruenti e non verificati estrapolati dai libri più disparati, accostati in maniera disinvolta, cui si sommano supposizioni, congetture e moltiplicazioni che Aprile non si sforza neppure di dimostrare – né potrebbe farlo. Ci si chiede come è possibile che rileggendo le bozze lo stesso Aprile non si sia accorto delle numerose volte in cui cade in contraddizione con quanto egli stesso scrive. Confonde arrestati, inquisiti, fucilati, soldati sbandati, balza da riflessioni sulla “nazionalità” all’inno fischiato durante le partite di pallone, dà vita ad un enorme discorso a ruota libera e si lascia andare in conteggi surreali, “quello dice che mancano tot persone, quell’altro che ne mancano tot, però un documento ci dice che ne mancano altri tot e che prima erano tot per cui se facciamo questo più quello meno questo e meno quest’altro…”. In fin dei conti chi e quanti mancano all’appello? Manco Aprile lo sa. Paradossalmente potrebbero persino essere le “vittime dei briganti” cui lo Stato, ricordiamo, elargiva veri e propri rimborsi. Senza certezze l’autore arriva presto a buttare numeri a caso e passa da 7.000 a 20.000, da 100.000 a 500.000 fino ad un milione. Anzicchè levarci da dosso le esagerazioni, gli ideologismi, la retorica dei risorgimentalisti, ci aggiungiamo quelle di senso opposto perchè, c’è poco altro da dire, quando uno legge “Carnefici” sembra che stia leggendo dei “milioni di morti” che la storiografia ufficiale imputa all’esercito borbonico con l’aggravante, però, che nel libro di Aprile c’è qui e lì qualche spruzzata di complottismo, l’idea di una grande macchinazione tra Stato, esercito e sette che camuffano i dati e fanno scomparire fogli e persino cadaveri.
Mai la popolazione – scrive Aprile – era diminuita in tutto il secolo precedente, e questa è una delle tante affermazioni piazzate nel discorso e non dimostrate anzi addirittura sconfessata da lui stesso in altri punti del libro. Chiunque si sia occupato seriamente del problema demografico sa che il modo in cui tali rilevazioni furono eseguite presenta parecchie lacune scientifiche. La tecnica dei “fuochi” e del rilevamento di anime a base parrocchiale, infatti, non offre alcuna garanzia di attendibilità e così nel Regno delle Due Sicilie nel 1854 scompaiono dai censimenti oltre 100.000 abitanti rispetto al 1852 e, nonostante la forte epidemia di colera, nel 1855, vengono segnalati 100.000 abitanti in più. Sono aumenti e diminuzioni privi di giustificazioni documentate e dunque imputabili ad errori nei sistemi di rilevazione. Tali dati ed osservazioni sono tratti dal volume “La questione Meridionale” di Aldo di Biasio che fa anche notare come la cifra cali costantemente a partire dal 1859 al 1861. Parliamo di un contesto storico completamente distante dal nostro, con un’altissima mortalità infantile ed una speranza di vita che, sino al 1871, era di soli 33 anni (V. Daniele – P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011). Tutti gli studi demografici però concordano nell’affermare che la popolazione del Mezzogiorno presenta dal 1861 una sostanziale stazionarietà: le statistiche SVIMEZ segnalano che la popolazione presente al Sud sul totale nazionale era il 37,1% nel 1861 ed ancora nel 1951 era del 37.2% con punte di valore più alto raggiunto nel 1881 con il 37.5% (SVIMEZ, Statistiche sul Mezzogiorno d’Italia 1861-1953).
Sarebbe meglio andarci piano, la forzatura nel leggere i dati o i “non dati” per piegarli ad una propria tesi maturata aprirori, non è la strada giusta per ridare al Sud la sua dignità, ma Pino Aprile è convinto, le prove non le ha, ma non fa niente e allora corregge tutti i genealogisti d’Italia ed asserisce: “il Sud diventa una terra in cui: 1. Non ci fu famiglia che non ebbe un fucilato, a norma di legge di occupazione, ovvero per abuso, 2. Né famiglia che non ebbe almeno un brigante (decine di migliaia), 3. Non ci fu famiglia che non ebbe almeno un recluso o un inviato a domicilio coatto, 4. Né famiglia che non ebbe militare deportato nei campi di concentramento del Nord”. Da studi certi e documentati possiamo dire che nella nostra famiglia nessuna di queste 4 tipologie figura, dunque qualcosa non va o nelle considerazioni di Aprile oppure i massoni hanno fatto scomparire le carte sulla nostra famiglia! Ed ancora un’altra: lo sapete che “prima la geografia e le mappe erano viste da Sud (con il Nord in basso…)” ? Parola di Pino Aprile, tutte le carte geografiche “di prima” che hanno il Sud al solito posto, cioè al Sud, sono false! Poi cita uno studioso che conosciamo ed apprezziamo, Edoardo Spagnuolo, che però sostiene che “il campo di definizione dei lutti che colpiscono il Sud per la repressione sabauda possa essere compreso tra i diecimila e i ventimila individui… Personalmente penso che il numero reale possa essere prossimo ai quindicimila…” e allora Pino Aprile lo corregge: Spagnuolo non ha i dati che ha lui, quali sono non si sa. La Marmora? Molfese? Un conto qui, un conto lì, li mette assieme, li corregge, li moltiplica deliberatamente per i mesi e gli anni che desidera, e si passa da 7.000 a 20.000; i libri d’epoca non parlano di genocidio, nessuna delle fonti che cita lo fa, ma lui continua imperterrito e si passa da 20.000 a 100.000. Il genocidio c’è stato, dice, ma ci avviamo alla fine del libro senza le prove di niente ed una cifra che è salita a 500.000… non si sa cosa, fucilati? Incarcerati? Incarcerati e fucilati? Deportati? Deportati, incarcerati e fucilati? Ed in che arco di tempo? E su un totale di quanti abitanti giacchè nel primo capitolo per Aprile erano 7.177.000, in quelli successivi diventano 9.000.000?
La storia si fa coi documenti non sulle illazioni ed i documenti parlano chiaro: non ci fu nessun genocidio. Tuttavia ciò che rende più difficile continuare la lettura è l’acredine e la lamentela ininterrotta “contro il Nord” come unico collante tra le argomentazioni più disparate di uno stesso capitolo. La rivalutazione della storia del Sud preunitario non ha bisogno di operazioni simili che anzi indeboliscono e ridicolizzano. Il processo di unificazione nazionale ebbe anche il volto dell’aggressione e della spoliazione, ormai scientificamente documentato. Fu una guerra, da cui nel giro di venti anni nacque un sistema economico duale con cui ancora facciamo i conti, e le vittime di quella guerra hanno bisogno di rispetto e non di genocidi inventati.
Autore: Angelo D’Ambra
La critica di Angelo all’ultimo libro di Pino Aprile è senza appello. Questo non lo condivido ovviamente. Ritengo che Aprile abbia aperto una strada, quella del metodo “statistico”.
Sinceramente non mi pare che l’autore di “Carnefici” dia per dimostrata questa o quella cifra, apre degli interrogativi e sostiene che di morti (per varie cause) ce ne siano stati tanti. Aprile scrive “centinaia di migliaia, da centoventimila in su”.
Mi pare che Martucci faccia una stima di 70-80mila, Guerri da anni sostiene che ci siano state non meno di 100mila vittime durante il brigantaggio.
Si tratta di due storici, non dei saggisti come Pino Aprile.
Zenone di Elea – 11 Luglio 2016
Uscire dalle secche del neoborbonismo e del neomeridionalismo
Neoborbonismo e Neomeridionalismo sono le due nuove facce della stessa vecchia medaglia: il tentativo velleitario che si consuma da un secolo e mezzo di risolvere la cosiddetta “questione meridionale” all’interno dello stato italiano. I risultati di questo tentativo li abbiamo davanti agli occhi.
Se soppesiamo le due facce antiche di questo velleitarismo – il borbonismo e il meridionalismo – scopriamo quegli stessi limiti che si ritrovano ancora oggi.
Il borbonismo fin dal decennio della guerra civile oscillò tra appoggio ai briganti nella speranza di una restaurazione e appoggio allo stato italiano per tema che le proprie terre finissero nelle mani dei contadini.
Il meridionalismo fin dal suo apparire incantò soprattutto la sinistra che ne fece una bandiera per intralciare il potere della destra, poi per soppiantarla nella guida del paese – i fatti sono noti, inutile ripeterli.
Fra i due movimenti fin dall’inizio vi fu, però, una notevole differenza: l’aspirazione alla indipendenza fu una componente del borbonismo ma non meridionalismo che questo problema – a parte qualche boutade alla Salvemini – non se l’è mai posto. Parlo del meridionalismo classico.
L’aspirazione a tornare indipendenti dopo i lutti e le delusioni che accompagnano la nascita dello stato italiano è un fiume carsico che attraversa i decenni che seguono la fine del Regno ed arriva fino a noi ed è stato lasciato come monopolio a frange tradizionaliste e cattoliche. Esse sono state le custodi del ricordo del Reame. Interessante la lettura di alcune testate che si pubblicavano nella nostra capitale agli inizi del novecento, fra cui IL GUELFO GIORNALE DE L’INDIPENDENZA MERIDIONALE – giornale scovato dall'Editore D'Amico.
La sinistra si è mostrata per niente sensibile (se si escludono Zitara e qualche altro) a questa aspirazione alla autonomia e alla indipendenza.
Dopo la parentesi fascista che non ha soppresso del tutto il fiume dell’autonomismo, quando arriva il centenario, infatti, è proprio negli ambienti di destra che esso riemerge, con la nascita dell’Alfiere di Silvio Vitale e la pubblicazione delle opere di Carlo Alianello.
Sempre in ambienti cattolici e di destra, agli inizi degli anni novanta si ergono voci di resistenza al bossismo e di orgoglio per la patria napoletana (Angelo Manna, Gabriele Marzocco, Edoardo Spagnuolo, Antonio Pagano, Alessandro Romano, i Meoborbonici).
L'universalismo cattolico e i legami con la patria italiana propri di questi ambienti ha impedito finora la creazione di un movimento identitario che propugni in maniera decisa la indipendenza dell'ex-Reame.
L’emblema di questa contraddizione, tra esaltazione dei bei tempi che furono e rifiuto di gettarsi nell’agone politico, è il culturalismo neoborbonico che da oltre venti anni persegue una educazione del popolo che finora non è approdata a nulla. Non solo, ma ha condizionato la visione dell’identitarismo da parte di chi ci osserva da fuori e non fa parte del nostro mondo – questo stesso sito viene scambiato per un sito neoborbonico, lo si desume dai messaggi che ci sono giunti in tutti questi anni. Il che non ci da fastidio ma dobbiamo prenderne atto.
La polemica che, in queste ore, si sta portando avanti sui risultati alle regionali della lista civica MO (Esposito Presidente) e del Pdsud (Vozza Presidente) è un dibattito sterile in quanto non centra il cuore del problema, che si chiama mancanza di credibilità politica. Rispetto agli altri candidati ad Esposito si sarebbe dovuto riconoscere perlomeno il merito della novità, invece non è accaduto. Personalmente ho coltivato la speranza di un suo ingresso a Palazzo Santa Lucia.
Non siamo credibili, continueremo ad esserlo se restiamo prigionieri del neoborbonismo (e del suo rifiuto della politica) e del neomeridionalismo (e della sua illusione che solo la sinistra possa risolvere la “questione meridionale”).
Quella che il leghismo ha imposto all’attenzione della pubblica opinione come “questione settentrionale” può essere risolta all’interno della repubblica come essa si è configurata nel dopoguerra, lo dimostra la sopravvivenza della lega che è passata dal bossismo al salvinismo portando a casa diversi risultati, non ultimo il titolo V della costituzione regalatogli dalla sinistra di governo.
Per noi è impossibile trovare una soluzione dentro questa configurazione statuale: questo stato è nato contro le Provincie Napolitane, si dovette usare il filo di ferro dell’esercito per tenerci uniti ad esso.
Riflettete sui risultati delle urne. Il renzismo che si illudeva di aver riconquistato le praterie elettorali padane, oggi vede i suoi principali puntelli nelle regioni meridionali più importanti: Puglia e Campania. Cosa ci guadagnerà il sud da tutto ciò? Nulla, quello che ci ha guadagnato Napoli ad avere due bravi sindaci di sinistra; Valenzi e Bassolino,
Solamente un partito nazionalitario meridionale che superi neoborbonismo e neomeridionalismo potrà costringere lo stato italiano a trattare, come accadde per la Sicilia nel dopoguerra, poi si vedrà se la strada dovrà essere quella della autonomia (come auspica chi scrive) oppure quella della indipendenza (come sosteneva senza mezzi termini Zitara).